Posted by on 19 Mar, 2016 in Recensioni | 0 commenti

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Lo chiamavano Jeeg Robot (dettaglio del poster)

 

Qualcuno pensa che raccontare la storia di un supereroe che acquisisce i superpoteri grazie a una scivolata nel biondo Tevere sia come parlare di un disco volante che sta per atterrare a Lucca? Be’, in tal caso prepariamoci a pregustare la storia di un marziano sotto le mentite spoglie di un Mario Rossi cuoco o portinaio del centro della città toscana, perché quella del ladruncolo di periferia di Tor Bella Monaca che, braccato dalla polizia, cade in un deposito di rifiuti tossici nel fiume e ne deriva una forza erculea, è appena stata scritta, diretta e interpretata con risultati sorprendenti in Lo chiamavano Jeeg Robot. Nemici delle ambientazioni nostrane, nascondetevi; sostenitori della purezza della sci-fi come anglicismo a traduzione vietata, prodotto di cultura ariana, fate largo. Forse è il caso di chiedersi se abbiate fatto il vostro tempo, perché questo film è un capolavoro.

Lo chiamavano Jeeg Robot (Claudio Santamaria)

 

La storia di Lo chiamavano Jeeg Robot

La trama è semplice ed efficace. Enzo Ceccotti cade nel Tevere, una melma radioattiva gli conferisce i poteri di cui sopra e lui, all’inizio, li usa per far meglio il suo mestiere: rubare. Ma quando s’imbatte in una ragazza affetta da malattia mentale post-traumatica, l’unica che lo riconosce dapprima come Amico e in seguito anche come Uomo, Enzo si ritrova suo malgrado costretto a fare qualcosa che ha smesso di fare da molto, troppo tempo: sentire le emozioni. Lei è una fan di Jeeg Robot sin dall’infanzia, anzi è convinta che Hiroshi Shiba esista davvero. E che sia proprio lui, Enzo Ceccotti.

Lo chiamavano Jeeg Robot (scena)

 

Un deciso sapore italiano

Dire che Lo chiamavano Jeeg Robot non ha nulla da invidiare alle grandi produzioni hollywoodiane è improprio, perché il paragone non ha molto senso. Ma a chi proprio non può farne a meno, va detto che è questo film, in verità, ad avere molte cose che alle pellicole Made in USA mancano. A partire, banalmente, dall’ambientazione nella nostra quotidianità, che non solo non diminuisce, ma semmai aumenta la verosimiglianza e la disposizione a sospendere l’incredulità. Tacciano i detrattori del romanesco; dopo il successo internazionale dell’ennesima fiction di “Malavita Capitale” ogni critica è frutto di preconcetta ostilità da puristi dell’ultima ora.

A ogni modo la questione linguistica è secondaria. Il merito maggiore di questo film è che dimostra tutta la potenza di un genere (si chiama “fantascienza”, una parola che, ve lo assicuriamo, esiste ancora) che da troppo tempo (da sempre?), in Italia, è oggetto di puro masochismo. Come se da noi la si potesse solo leggere o guardare (tradotta o doppiata, please) ma non fare. Come se nel nostro paese non ci fossero l’intenzione e la capacità, tanto artistica quanto tecnica, di esprimere in chiave fantastica una storia che parli di cose molto serie, che riguardano tutti.

Lo chiamavano Jeeg Robot ("Lo Zingaro" - Luca Marinelli)

“Lo Zingaro”, il pericoloso antagonista interpretato da Luca Marinelli

Fantascienza e pulp, miscelati con il quotidiano

Ebbene sì, perché questo film, con uno stile pulp che rinuncia volentieri all’autocensura, parla di degrado delle periferie, delinquenza giovanile, disagio psichico (grande prova di Ilenia Pastorelli, ben oltre lo stereotipo romanesco), sfruttamento degli extracomunitari, e forse anche di psicosi da abuso di social network. E nella pignatta, in cui ribollono tutti questi ingredienti, il regista Gabriele Mainetti e gli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti ci buttano dentro quello più saporito: l’uomo qualunque. Un disadattato – uno straordinario Claudio Santamaria – che subisce una trasformazione progressiva e inarrestabile. Così l’acquisizione dei superpoteri fisici diventa l’immagine di un movimento interiore, e la lotta contro lo Zingaro “cattivo” (ma italianissimo), interpretato dal magistrale Luca Marinelli, diventa storia di una separazione dalla dimensione anaffettiva del mondo d’origine del protagonista. Una dimensione in cui sedersi a mangiare budino davanti a film porno con un bancomat sradicato accanto al divano di casa è sufficiente a illudersi di essere ancora umani.

L'eroe del film, interpretato da Claudio Santamaria (Foto di Laura Scarpa)

L’eroe di Lo chiamavano Jeeg Robot, interpretato da Claudio Santamaria (Foto di Laura Scarpa)

Ceccotti è la quintessenza dell’ignoranza, dell’egoismo, della freddezza. Ma in lui è rimasto un barlume di sensibilità, e sono i “super-poteri” che gli permettono di fare leva su di esso e ritrovare in pieno l’interesse per gli altri, la propria identità di Essere Umano. Sarà questo, il vero (super)eroismo?
Per raccontare una bella storia di fantascienza non serve essere nati su Krypton. Se sai raccontare, basta (e avanza) la periferia di Roma.
Perché, scrisse Calvino, “il divertimento è una cosa seria”.

 

> Leggi l’altra recensione: “Lo chiamavano Jeeg Robot, visto da Milano”

 

Francesco TroccoliAutore ospite: Francesco Troccoli

Romano, classe 1969. Nel bel mezzo della sua carriera di dirigente in una multinazionale farmaceutica cambia vita e inizia a dedicarsi alla scrittura di genere fantastico oltre che alla scrittura e alle traduzioni di area scientifica. È membro del collettivo di autori “La Carboneria Letteraria”, ha pubblicato numerosi racconti in riviste e antologie di diversi editori, ma anche la raccolta personale Domani forse mai (Rill, 2013) e i due romanzi sci-fi Ferro Sette (2012) e Falsi dei (2013) con Curcio Editore, da poco ripubblicati da Delos. A breve uscirà il terzo e conclusivo romanzo della serie, Mondi senza tempo (Delos).
Su Altrisogni ha pubblicato i racconti “Nude mani” (Altrisogni n.1) e “La foglia e il vento” (Altrisogni n.4).

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