Lo chiamavano Jeeg Robot è davvero un’opera ben costruita. Scorre veloce, divertente, piena d’azione.
Il film diretto da Gabriele Mainetti, scritto da Menotti e Nicola Guaglianone, è stato pensato da e per la cultura pop, come pellicola di genere: ne ha la forma e i contenuti. E cita pellicole classiche italiane, d’azione e di supereroi.
Si vede benissimo l’influenza di Spider-Man e Batman nella costruzione dei personaggi, nei bidoni radioattivi che danno i superpoteri e non il cancro, nell’eroe riluttante, nello “zio Ben” (il mentore, qui una ragazza) che spinge il protagonista ad agire, nella strana ossessione d’amore-odio del cattivo di turno nei confronti dell’eroe.
Lo chiamavano Jeeg Robot pesca anche dai film d’azione e di criminalità intesi in senso più ampio: un’altra delle facce dell’antagonista è senza dubbio quella di Tony Montana in Scarface, il criminale emarginato che “vuole fare il botto”. Lo scontro finale, poi, cita Bruce Lee e l’iconografia classica de L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente. E ci sono rapine e kalashnikov e criminali che non sanno il fatto loro, come in Gomorra.
Lo chiamavano Jeeg Robot è tutto italiano
È girato in scenari italianissimi. Se non fosse stata una storia di periferia, di grande città e di gente spaesata, sarebbe stato girato nel paese di Don Matteo. Invece l’ambientazione è una borgata di Roma, la periferia di una grande città italiana che le riassume tutte.
Italianissima la colonna sonora, ben inserita nella narrazione tramite le autoradio, gli auricolari dei lettori MP3 nelle orecchie dei personaggi, e addirittura con la performance del cattivo che canta Anna Oxa in un locale di fronte ai suoi amici camorristi, esibizionista come il mitico Joker o come la comparsa di un qualunque talent show dei nostri tempi.
Italianissimo anche il cast, bravissimi tutti, tra cui ovviamente i tre protagonisti Claudio Santamaria, Ilenia Pastorelli e l’incredibile “Zingaro” Luca Marinelli. A me hanno incantato “i napoletani”, presi quasi di peso negli stessi ruoli e negli stessi scenari dalla serie TV Gomorra.
È commedia o tragedia?
Lo chiamavano Jeeg Robot è perfettamente italiano anche in questo, perché riesce a essere entrambe le cose. È commedia, anche bassa. È tragedia, anche dura. Storie di periferia, di squallore, di overdosi, di criminali ragazzini che finiscono male, di gente superata dalla vita e dai suoi traumi, profondi e insanabili.
“Che palle” state pensando? Ma no! La matta, quella più traumatizzata, ogni volta che apre bocca fa scompisciare dal ridere. La tragedia si intravede in pochi secondi del film. Per capire chi sia il Ministro Amaso, cosa facesse con la Spada Alata e perché la matta abbia bisogno di rifugiarsi in un mondo di fantasia bisogna stare un po’ attenti, altrimenti appaiono solo come le scemenze divertenti di una squilibrata e va bene uguale. Lo stesso vale per alcuni dettagli della trama: la parte in cui si manifesta come un thriller politico sulle bombe italiane, sulla mafia che le mette per questioni di soldi e sullo Stato che si piega, passa in un solo attimo di fronte allo spettatore, mentre il protagonista spegne la radio proprio quando il notiziario ne sta parlando: lui non se ne accorge nemmeno.
Riassumendo: un film che in sala diverte, cerca di ascoltare la lezione di Tarantino senza essere un clone, funziona come un orologio senza avere un personaggio o una scena di troppo, fa cose nuove e le fa per bene nonostante il budget contenuto. Un film che, se avete voglia di scoprirli, offre anche piani di lettura diversi. E se vi va di scovarli vi andrà anche di farlo da soli, tra le righe della storia, e di ritrovarvi spaesati come i personaggi.
A mio giudizio questo film è frutto di un gran lavoro di pianificazione, di scrittura, di costruzione ingegneristica. Un film che sfrutta bene Roma (che è la città dove si gira e dove vivono gli autori), che sfrutta gli attori che ha, gli scenari che ha, in modo funzionale e “pulito”. Che tocca tutti i canoni del genere supereroi e dei film italiani pop anche per sovvertirli.
E forse sta proprio qui suo il mezzo limite, per chi non è uscito soddisfattissimo dalla sala: l’impressione di una precisa costruzione a tavolino, della fusione un po’ fredda di tantissime fonti che gli autori pure amano con passione.
Ma il film funziona. E il cinema italiano deve esserne ben contento.
> Leggi l’altra recensione: “Lo chiamavano Jeeg Robot, visto da Roma”
Autore ospite: Marco Sergio Romanelli
Milanese a Madrid, trentatanti anni d’età, politologo, lavoratore dell’informazione, traduttore, critico cinematografico, ex giocatore di basket e di ruolo, spia sovietica e cittadino del mondo. Tarantiniano convinto, preferisce di gran lunga la Marvel alla DC, tradisce la moglie Star Trek con l’amante Star Wars, ma in ogni caso entrambe erano molto meglio prima, ché in fondo questi sono anni hipster. Guarda troppe serie televisive per esser preso sul serio quando poi tenta di parlare di politica, e non sa più quali siano le cose giuste da leggere, almeno da quando è rimasto prigioniero di George R.R. Martin.
Mi toccherà andare a vederlo, cosa per altro già pianificata. Desiderio rafforzato dalla lettura della recensione “milanese”
Ciao Anna, grazie del commento! Ci fa davvero piacere che la recensione di Marco Sergio Romanelli abbia rafforzato la voglia di vedere il film!
Noi lo abbiamo già visto ma lo andremo a vedere di nuovo, grazie alla ri-distribuzione nelle sale che ha luogo proprio in questi giorni, conseguenza del successo ottenuto dal film durante il David di Donatello 2016 (7 premi conquistati non sono certo pochi!). Se ne avrai voglia, facci poi sapere cosa te ne pare 🙂